Omelia
Arcivescovo Mons. Giuseppe Costanzo
per anniversario ingresso in Diocesi
17° Anniversario
dell’Ingresso in Diocesi 1990 - 28 Gennaio – 2007 Lo scandalo
della Croce
Venerati
confratelli, sorelle e fratelli carissimi, da diciassette anni
camminiamo insieme. Con voi sono cristiano, per voi vescovo, direbbe
il grande Agostino. Con voi ho cercato il volto di Dio, per voi ho
tentato di tracciare sentieri di santità. Insieme abbiamo gustato
quanto è buono il Signore e quanto è bella la nostra vocazione.
Abbiamo fatto esperienze esaltanti: l’anno mariano ci ha stretti
attorno alla Madre, facendocela meglio conoscere e amare; l’anno
luciano ci ha messi a confronto con la fedeltà eroica di Lucia,
nostra concittadina e amata patrona; l’anno vocazionale ci ha spinto
a riconsiderare l’importanza della vocazione battesimale e di quelle
di speciale consacrazione. In quest’anno pastorale ci siamo messi
sotto la guida dell’apostolo Paolo, l’afferrato da Cristo e
l’evangelizzatore infaticabile. Di lui vi ho già detto alcune cose
nella lettera pastorale dal titolo “Sulle orme dell’Apostolo Paolo”.
Ma c’è un tema di fondamentale importanza, su cui è necessario
sostare in meditazione. Esso riguarda il contenuto dell’annuncio,
che non è qualcosa, ma Qualcuno. Paolo dice: “Noi predichiamo Cristo
Crocifisso” (1 Cor 1,23). La parola “Crocifisso” e “crocifissione”
sconcerta, scandalizza la nostra intelligenza e la nostra
sensibilità. La morte di croce, riservata ai sovversivi e traditori,
nemici della società e pericolosi per l’ordine pubblico, evocava
l’immagine di una morte infamante e dolorosa. Univa i due aspetti:
il massimo della tortura e il massimo della degradazione umana.
Basti pensare che la legge romana vietava tale pena per quelli che
avevano la cittadinanza romana. Ora, andare in giro per il mondo,
predicando il Crocifisso e affermando che Egli, il giustiziato del
Golgota, colui che è stato ucciso dall’autorità giudaica come
eretico e dall’autorità romana come ribelle, è la definitiva
manifestazione salvifica di Dio, era semplicemente una follia:
“scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,23). È
scandalo per i Giudei, perché il Crocifisso mette in crisi la loro
immagine di Dio, quella, cioè, del Dio potente, del Dio dei
miracoli, del Dio che abbatte la potenza del faraone e libera il suo
popolo. È stoltezza per i pagani, per i greci, perché questi
cercano il Dio della ragione, delle sicurezze umane, della sapienza
e dottrina che soddisfi una intelligenza avida di conoscere. Cosa di
per sé legittima, e a cui la croce, paradossalmente, darà risposta,
ma se la si pone come esigenza preliminare, senza la quale ci si
rifiuta di credere, essa è inammissibile. Vogliamo considerare tre
momenti di questa realtà che ci lascia senza parola: la Croce di
Cristo, la nostra croce, la croce del mondo (cioè tutto il male che
lo affligge). La Croce di Cristo La Croce appare scandalosa,
assolutamente incomprensibile, anche a noi. Ci sembra assurdo che la
vita del Figlio di Dio possa concludersi così. Non comprendiamo
perché il Padre non intervenga a liberarlo dalle mani dei suoi
nemici e dalle maglie di una “giustizia” così crudele e iniqua. Noi
vorremmo che Dio intervenisse subito a fare giustizia, a ristabilire
la verità, con un intervento forte, eclatante. E invece Dio non
interviene qui sul Calvario a liberare miracolosamente il Figlio
dalle mani dei suoi uccisori. Interviene dopo, risuscitandolo dai
morti. E anche questo comportamento ci lascia perplessi. Perché non
subito? Perché non sfruttare l’occasione, del resto invocata, di
liberare Gesù dalla croce, lasciando confusi e sconfitti quelli che
si prendevano beffe di Lui? Umanamente, dunque, la croce appare come
il contrario di ciò che gli uomini si attendono: agli ebrei che
attendono i miracoli - cioè una manifestazione di potenza e di
gloria - essa appare come sconfitta; ai greci che attendono la
sapienza e il trionfo della ragione, essa appare come stoltezza. Ma
nella fede, la croce è potenza di Dio e sapienza di Dio (cfr 1 Cor
1,24). La fede ci dice che Dio segue una logica diversa dalla nostra
e cammina su strade che noi non riusciamo nemmeno ad immaginare: “I
miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le
mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri
pensieri” (Is 55,8ss). La Croce mette in crisi le concezioni umane
di Dio - dio-successo, dio-prestigio, dio-abbellimento culturale - e
mostra uno stile di Dio, che è tanto diverso dal nostro, smanioso di
potenza e di gloria. La croce rivela il vero volto di Dio, che è
Amore umile e disarmato, tenero e mite. “Un Dio che ha così tanto
rispettato la nostra libertà da farsi assassinare proprio da noi,
per offrire una vita più forte della morte a ciascuno di noi,
assassini quotidiani dell’amore” (O. Clément).Se Dio non interviene
subito, se non interviene schiacciando, se permette che il male si
accanisca su di lui, se lo assume su di sé, è per vincerlo più
sicuramente. Se ha scelto di vincere la morte per mezzo della morte,
il dolore mediante il dolore, il male lasciando che il male si
diffonda, è un mistero, ma non un assurdo. Fa parte della “sapienza
e della scienza di Dio”, mostra “quanto sono imperscrutabili i suoi
giudizi e inaccessibili le sue vie”; “infatti, chi mai ha potuto
conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo
consigliere?” (Rom 11,33ss). Se i modi, i tempi, i silenzi di Dio
ci sorprendono, non devono però provocare smarrimento. Dio sa quello
che fa. A Lui tutto è possibile. “Prevalere con la forza” – dice il
libro della Sapienza – “ti è sempre possibile: chi potrà opporsi al
potere del tuo braccio? Tutto il mondo davanti a te, come polvere
sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla
terra. Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi” (11,21-23) La
sua parola è l’ultima e l’unica; quella risolutiva, quella
definitiva. È la parola della risurrezione. La nostra croce È il
dolore che ci tocca da vicino, quello che viviamo sulla nostra
pelle. Può trattarsi di sofferenza fisica o psichica o spirituale.
Può essere la malattia che ci blocca momentaneamente o quella che è
invalidante e crea dipendenza. Può essere un dispiacere improvviso,
una delusione cocente, un torto immeritato. Può trattarsi di un
periodo più o meno lungo di aridità, di buio interiore, di fatica
nella vita spirituale. Quando la croce – soprattutto quella che
sentiamo pesare ingiustamente sulla nostra vita – ci tocca, restiamo
disorientati e desolati e ci domandiamo perché proprio a noi. A
volte sbottiamo in parole insensate, con cui giudichiamo l’operato
di Dio e dubitiamo del suo amore e della sua paternità. Altre volte
ci chiudiamo, ci scoraggiamo, ci sentiamo abbandonati da Dio e gli
gridiamo i nostri “perché”. Spesso la nostra sofferenza è
appesantita dalle parole di quelli che – come gli amici di Giobbe –
vorrebbero darci conforto e finiscono con l’inasprire il nostro
dolore ed esacerbare il nostro cuore: e questo perché le parole
spesso sono troppe ed inopportune, perché sono solo teoriche e
dunque inadeguate, perché esprimono giudizi e danno consigli non
richiesti, anziché offrire comprensione e vicinanza. Certamente
giovano – e quanto! – anche le parole degli uomini, ma solo quando
procedono da un cuore umile e da un amore sincero. La croce può
avere esiti differenti e persino opposti nella nostra vita: può
schiacciare e può elevare, può abbrutire e può affinare, può
portarci alla ribellione o alla pienezza della perfezione. Quando la
situazione è quella del Salmista: “Sono colpito tutto il giorno e la
mia pena si rinnova ogni mattina” (Sal 73,14), solo un cuore
sapiente può salvarci dalla disperazione, solo la contemplazione
della Croce apre un varco risolutivo allo smarrimento dell’anima,
solo la fiducia nel disegno d’amore di Dio ci rende docili, solo la
vittoria del Risorto può darci pace: “Vengono meno la mia carne e il
mio cuore, ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per
sempre” (Sal. 73,26). Quando la fede è matura, si comprende
l’atteggiamento di un uomo di fede come Bonhoeffer, che, nel lager
nazista, qualche giorno prima di essere ucciso, scrive: “Signore, io
non capisco le tue vie, ma tu sai qual è la mia strada”. Quando la
fede è matura, diventa capace di integrarsi anche la sofferenza e di
farle posto. Non è vero che la sofferenza annienta la felicità. I
santi ce ne danno testimonianza. Naturalmente, quella che convive
con la sofferenza è un’altra specie di felicità, è la felicità che
conoscono solo coloro che l’hanno compreso alla luce della croce.
Chi vuole diventare felice quaggiù, dev’essere in grado di far posto
alla sofferenza che purifica, educa, unisce al Cristo Crocifisso,
“procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2Cor 4,17).
Importante è viverla con Lui, che la illumina e la santifica. Ma è
pure importante – dopo l’aiuto di Dio – il sostegno che ci viene
dall’uomo: la solidarietà fraterna. La solitudine, infatti, può
portare alla disperazione, mentre la solidarietà porta alla fiducia
e alla speranza. Per questo dopodomani, 31 Gennaio, daremo inizio ai
lavori di ristrutturazione della “Casa della Carità”, che accoglierà
dieci malati di AIDS terminali e abbandonati. È un bisogno del
cuore. È obbedienza alla legge dell’amore. La Croce del mondo (il
male che lo affligge). È l’altro motivo di scandalo. La nostra fede
viene messa a dura prova dalla presenza del male che accompagna e
tormenta la storia. Molte volte sentiamo così vivo lo sconcerto del
male nel mondo: ingiustizie, violenza, terrorismo, catastrofi
naturali… Proviamo dolore e rabbia davanti alla persona sfruttata,
alla dignità calpestata, all’innocenza profanata, allo scempio della
vita, e ci domandiamo: Perché Dio lo permette? Perché Dio non ferma
tutto questo male? Perché lascia che si diffonda così? Sembra una
cosa incredibile. È una prova per l’anima vedere il male trionfare,
mentre Dio apparentemente non fa niente, come apparentemente non
interviene davanti alla sofferenza, al dolore degli innocenti.
Perché? È una ferita per l’anima, una profonda ferita. La nostra
ferita ci causa molto dolore per tre motivi: anzitutto perché
giudichiamo coi nostri criteri umani, con la nostra vista miope, coi
nostri orizzonti angusti. In secondo luogo, perché noi vorremmo che
Dio agisse subito. Abbiamo fretta. Siamo impazienti. “Quante volte –
dice il Papa – noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che
Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo
migliore… Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo
tutti bisogno della sua pazienza… Il mondo è redento dalla pazienza
di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini” (Omelia della Messa
per l’inizio del Pontificato). Tornano alla mente le parole del
libro della Sapienza: “Tu (o Dio), padrone della forza, giudichi con
mitezza; ci governi con molta indulgenza, perché il potere lo
eserciti quando vuoi. Con tale modo di agire… hai reso i tuoi figli
pieni di dolce speranza” (12,18ss). In terzo luogo, per il modo in
cui Dio risponde al mistero del male e della sofferenza. Dio
risponde con la croce del Figlio. La Croce è la risposta divina al
mistero del male e del dolore. Una risposta che ci sconcerta. Noi,
infatti, ci aspetteremmo una vittoria divina evidente, eclatante,
trionfante, superba in fondo, mentre Dio ci mostra una vittoria
umile, umilissima. Vince il peccato prendendolo su di sé, annienta
la morte lasciandosi uccidere, sconfigge il male facendosi
apparentemente travolgere dal male. In croce appare uno sconfitto,
un maledetto, un uomo rifiutato da Dio e dagli uomini. È un mistero
veramente profondo. E tuttavia conosciamo il segreto di questo
mistero, di questa umiltà abissale: “Dio ha tanto amato il mondo da
dare il suo Figlio unigenito”. Il segreto è l’amore, un amore
assolutamente gratuito, ineffabile e inarrestabile. Grazie a questo
amore, Gesù è diventato come il serpente innalzato nel deserto, è
diventato l’immagine del male, l’immagine della sofferenza e nello
stesso tempo il rimedio della sofferenza e del male. Gesù ha aperto
la nostra esperienza all’amore di Dio, e così ha trasformato le cose
in profondità. E ci dà la possibilità di vincere con lui e come lui
– cioè con la stessa vittoria umile e piena d’amore – e di trovare
nel male, nella sofferenza, l’occasione di un amore più puro e più
pieno. Come è stato il suo, che ci ha amati fino all’estremo
dell’amore: “in finem dilexit”! Fratelli e sorelle, la Croce di
Cristo ha una sola spiegazione: il grande amore con il quale Dio ci
ha amati (cfr. Ef 2,4); la nostra croce ha una sola valorizzazione:
credere all’amore che Dio ha per noi (cfr. 1G v4,16); la croce del
mondo ha una sola chiave di lettura: l’amore di Dio, mai stanco di
pazientare, di perdonare e di attendere. Allora, quando il Signore
prova mente e cuore, quando l’anima è tutta sconvolta, quando
sperimentiamo l’agitazione del cuore e l’intimo tormento, non
comportiamoci da stolti, lasciamoci condurre come e dove Lui
vuole, fidiamoci dei suoi progetti, affidiamoci al suo amore tenero
ed esigente, diciamogli con l’orante della Bibbia: “Ma io sono con
Te sempre; tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il
tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria” (Sal 73,23ss).
Cattedrale di Siracusa, 29 Gennaio 2007.
† Giuseppe Costanzo